intervista di Mauro Cereda a Francesco Magni
Brianze numero 28
Lo chansonnier
di Capriano
Lui si definisce sorridendo “chansonnier di Brianza”. Sul dizionario
di francese si legge “autore ed esecutore di canzoni”. La traduzione
letterale in italiano non rende, però, appieno l’idea del personaggio:
troppo anonima ed incolore. Ci sono autori e autori e ci sono esecutori
ed esecutori. Meglio allora restare al francese, più evocativo di suoni
e sapori veri. Come quelli che predilige Francesco Magni, da e di Capriano
di Briosco. Capelli lunghi e barba folta, Magni racconta e musica storie
e storielle da più di vent’anni. Per lo più in dialetto. Le sue canzoni,
come scrive un critico, richiamano “atmosfere che sanno di terra e temporali”,
i suoi concerti sono fatti di “ruvide e antiche ballate contrappunto
a raffinati cammei musicali e perfetti strampalati scioglilingua che
la sua voce arrotonda come un vino passito”. Il giorno dell’appuntamento
è una tipica domenica di autunno brianzolo. Lo “chansonnier” è sulla
soglia di casa, una vecchia cascina ristrutturata, immersa nella campagna.
Arredo contadino, caffè ancora fumante sul fornello. Comincia la chiacchierata.
Iniziamo dal suo identikit.
Mi chiamo Francesco Magni, vivo in Brianza, scrivo e suono canzoni
dall’inizio degli anni ’70. Il primo disco intitolato Il paese dei
bugiardi, in dialetto El paes di bosiard, l’ho pubblicato
nel ’78. L’ultimo Scigula, cioè Cipolla, nel 2003, con
voi di Brianze.
Come ha cominciato a scrivere e a cantare?
In modo molto naturale, è una cosa che sentivo dentro. Ricordo che
quando avevo 3 anni ad un mio amico regalarono una fisarmonica rossa:
la volevo anch’io, invece ricevetti un’armonica. Ho iniziato a soffiarci
dentro, quindi dopo averla dimenticata per lungo tempo, a 20 anni l’ho
ritirata fuori. Poi durante il militare ho imparato a strimpellare la
chitarra. Suonavo dappertutto, dove capitava. E scrivevo moltissimo.
Era l’inizio degli anni ’70.
Un periodo di grande creatività.
Si, c’era tanta voglia di esprimersi, di raccontare. Tanta voglia
d’amore e di ribellione. Scrivevo testi carichi di rabbia, anche molto
forti. Testi che, ad esempio, parlavano di difesa della terra, un tema
che poi ho affrontato durante tutto il mio percorso artistico. Si può
dire che sono stato un ecologista ante-litteram. In quegli anni decisi
di lasciare il lavoro di radiotecnico per dedicarmi alla musica. Mi
dissi: dove arrivo arrivo, volevo seguire le mie inclinazioni, ero determinato
a cambiare vita.
Scelta difficile.
Decisamente. Scrivevo moltissimo, di continuo. Alcuni testi non
li ho neppure conservati. Scrivevo moltissimo ma non pubblicavo nulla.
Fino a quando venni notato da Nanni Svampa. Era il ’77.
Come accadde?
Svampa sentì una mia canzone, La mia terra, un lavoro del
’73, gli piacque e la incise con altre tre, sempre mie, in un album
intitolato Al di d’incoeau. La mia terra è una canzone
che parla della Brianza, ma il significato può adattarsi a qualsiasi
luogo che viene devastato dall’azione dell’uomo. È una denuncia contro
il degrado dell’ambiente. Ecco qualche passo: “La mia terra la va in
malora - Cont la roggia, el ciel, el praa - La mia terra la va in malora
- Ghè pù nient, pù nient de faa - In del foss, ghè pù una rana - E i
ratt fan no graa gra - El me Lamber l’è una fogna - Marmelada in mezz
ai caa”.
Con questa canzone Svampa ha chiuso un concerto che ha tenuto alcune
settimane fa allo Smeraldo di Milano. Una grande emozione per me.
In vent’anni di attività artistica ha fatto anche altri incontri
importanti.
Sì, ho lavorato con Moni Ovadia e il suo Gruppo Folk Internazionale,
con Antonella Ruggiero, con Alberto Fortis. L’incontro con Ovadia è
stato molto importante, oltre che del tutto fortuito: ci siamo incrociati
in treno di ritorno da Roma, gli ho mandato una cassetta e mi ha chiamato.
Poi è stato a Sanremo.
Esatto, nel 1979 ho fatto Castrocaro, passaggio obbligato per andare
a Sanremo, poi nel 1980, sono arrivato all’Ariston con la canzone Voglio
l’erba voglio, che vinse il premio della critica.
Sanremo è stata un’esperienza sconvolgente perché mi fece conoscere
al grande pubblico. A questa manifestazione è legato anche un episodio
curioso.
Cioè?
Il testo della canzone era abbastanza forte. In un passo dicevo "Chi
si tira una pera solamente il dì di festa". Per la seconda serata l’organizzazione
mi aveva chiesto di modificarlo con "Chi fa il gallo solo al dì di festa":
promisi di farlo ma poi sul palco me ne dimenticai. Il disco andò bene,
vendette 30 mila copie e fu inserito in 13 mila juke-box. Il fatto è
che Sanremo è un’arma a doppio taglio: può darti il successo, ma può
anche bruciarti. E io qualche problema l’ho avuto, soprattutto con le
case discografiche.
Cosa ha fatto dopo Sanremo?
Ho continuato a scrivere e suonare; ho viaggiato molto, sono stato
sette volte in India, un paese meraviglioso pieno di sapori e di contrasti;
ho insegnato musica nelle scuole elementari, un’esperienza bellissima:
i bambini la musica ce l’hanno dentro, bisogna solo spiegare loro come
riconoscerla, e io lo facevo con il gioco.
Torniamo alla sua attività artistica: perché scrive prevalentemente
in dialetto?
Perché è la lingua della mia terra, perché è un mezzo espressivo
forte, pieno di sfumature. È un linguaggio intimo, quello più vicino
a me. Ho iniziato a scrivere in dialetto quando la maggior parte delle
persone si vergognava a parlarlo. Si diceva: al parla in dialett,
l’è un martul. C’era una forte riprovazione sociale in quei tempi.
Oggi, invece, la canzone dialettale è diventata di moda. E a mio giudizio
non è del tutto positivo.
In che senso?
Nel senso che ormai i cantanti dialettali spuntano come funghi.
Ce ne sono di bravi o di molto bravi, ma anche di scadenti. Adesso va
molto la canzone dei tempi andati: "ah com’era bello una volta… Ah com’erano
romantici i Navigli…"
E non va bene?
Non bisogna esagerare. C’è la riscoperta del dialetto e allora tutti
cantano in dialetto, spesso testi insipidi, banali: quelli dei tempi
andati, appunto. Io penso che il dialetto vada benissimo anche per raccontare
cose di oggi. Per fare canzoni d’autore. Il dialetto è poesia pura,
è musica.
Cosa rappresenta per lei la Brianza?
È la mia terra, io sono innamorato della Brianza. Ci sono nato e
ho deciso di viverci. In piena campagna. Questa casa l’ho comprata molti
anni fa da una signora, l’Angelica, che l’abitava con centinaia di piccioni:
un personaggio incredibile. Io ho bisogno di sentire il freddo dei campi,
il cinguettio degli uccelli, i rumori e i silenzi del bosco. La Brianza
era un posto magico, oggi lo è sempre meno.
Perché?
Perché è stata rovinata, in nome dello sviluppo, uno sviluppo spesso
cieco. Hanno offeso il territorio, non ne hanno compreso il valore.
Si è perso il senso della bellezza, ora si cerca di recuperarlo, ma
temo che sia troppo tardi. Ho le radici, i piedi ancorati in Brianza,
ma la testa ama divagare, andare in giro per il mondo.
Veniamo al suo ultimo lavoro: Scigula. Cosa c’è in questo disco?
Ci sono tante cose: storie, personaggi, scioglilingua, momenti di
vita. Ci sono i suoni della Brianza. E anche due testi dell’800, musicati
da me: La tegnoeula e Matrimoni d’amor. È un lavoro fatto
di canzoni e ballate venate di humor popolare, ma anche di malinconia:
è un disco agrodolce ed è il risultato delle fatica e della tenacia
di un gruppo di brianzoli. Il titolo? Ho scelto Scigula perché
è una parola che ha forza in sé, che ha colore, spessore.
Come il dialetto.